mercoledì 11 giugno 2008

TEST DI GRADIMENTO? LA SCUOLA NON E' UN DISCOUNT di Giorgio Israel

("Libero")
Nulla da eccepire contro una gestione efficiente e "manageriale" delle scuole pur di aver chiari i limiti entro cui ciò ha senso. Entro tali limiti si possono anche accettare i test di "customer satisfaction" vantati su Libero dallo stimatissimo preside Mario Rusconi.
Possono esser utili se si tratta di sondare i pareri di studenti e famiglie circa le strutture scolastiche (aule, gabinetti), l'efficienza dell'amministrazione e l'organizzazione delle gite scolastiche o delle altre (sempre troppe) iniziative "culturali" annesse ai POF (piani di offerta formativa). Ma sul resto - che poi rappresenta la vera sostanza della funzione della scuola la "customer satisfaction" non dovrebbe neppure mettere il naso. La "customer satisfaction" in un supermercato è definita abbastanza bene da quella nozione che gli economisti chiamano "massimizzazione dell'utilità": è ottenere il prodotto migliore e più desiderato al minimo costo. A scuola ciò si traduce nell'ottenere il massimo voto e la promozione con il minimo sforzo. Anche uno sprovveduto dovrebbe capire che la cosa non funziona affatto, per il semplice motivo che la cultura e la conoscenza non sono prodotti e servizi e nell'istruzione l'inte resse sociale e nazionale deve imporsi sugli interessi specifici. Chiunque - singoli o gruppi - si limiti a difendere il proprio particolare non ha alcun vantaggio ad accettare questo fatto, al contrario; e la debolezza di chi governa (a tutti i livelli) ha come effetto il cedimento alla pressione degli interessi particolari. Pertanto, la "customer satisfaction" applicata non ai gabinetti ma alla conoscenza è fonte di colossale inefficienza e di degrado.
Gli esempi sono innumerevoli. Laurearsi in tempo è qualcosa che soddisfa tutti: governanti e "utenti" (termine che occorrerebbe proscrivere quando si parla di educazione). Ma per ottenere questo risultato basta abbassare il livello dell'istruzione. Come ha osservato Angelo Panebianco, coloro che si ostinano a lodare la riforma universitaria del "3+2" (laurea triennale e specialistica) ripetono che ora ci si laurea in minor tempo rispetto a prima: ma ciò accade al costo di «un drammatico abbassamento della qualità" di «una corsa a distribuire lauree triennali anche a gente impreparata». Quando poi questo sfacelo viene testimoniato da sondaggi e statistiche: invece di porsi il problema di "cosa" s'insegna, tutti si affannano ad architettare nuove riorganizzazioni dell'apparato ostinandosi sulla linea della soddisfazione dell'utente e del rispetto di parametri quantitativi. C'è chi se la prende con la pedagogia "tradizionale" che ammaestra i ragazzi a presentarsi come "persone a modo"; come se fosse un male e come se questa pedagogia esistesse ancora, visto che da un trentennio vige il pensiero unico della pedagogia progressista di stato. C'è chi propone di abolire l'ora di lezione e di trasformare ogni scuola in una "comunità educante", in cui un gruppo si raccoglie a parlare di storia, un altro discute dell'impatto antropico sulla biosfera e un altro fa matematica creativa; sul modello del paese dei balocchi di Collodi, in cui «chi passeggiava vestito da generale coll'elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta, chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l'ovo». Questi sono i rimedi che ci vengono proposti, ma di contenuti non parla mai nessuno, per il semplice motivo che ciò condurrebbe a individuare obiettivi imprescindibili indipendenti dalla "customer satisfaction" e ciò urterebbe assai i gruppi d'interesse.
In un recente intervento a favore della "bocciatura" del latino, il presidente di TreElle Attilio Oliva ha osservato che l'obbligatorietà del latino ne fa una delle materie meno amate («snobbata e rifiutata») e che presenta un primato nei debiti formativi. Meglio quindi renderla facoltativa. Con questo ragionamento occorrerebbe rendere facoltativa anche la matematica, essendo di certo una delle materie meno amate, snobbata, rifiutata, anzi detestata... Si dirà che ciò è impensabile in una società moderna. Appunto. Discutiamo allora di cosa sia essenziale per una formazione seria lasciando da parte la "customer satisfaction" e i gusti dell'"utenza".
Un'altra questione delicatissima è quella dell'autonomia, che è in linea di principio un'esigenza sacrosanta, a patto di pensarla in modo razionale e responsabile, tale da non produrre risultati come l'attuale libanizzazione dell'università in 5434 corsi di laurea. A me pare che l'assunzione diretta dei docenti da parte di università e istituti scolastici sia una prospettiva ragionevole a condizione che questa venga fatta all'interno di liste nazionali di idonei risultanti da seri e rigorosi processi di selezione. Si resta invece sconcertati di fronte a proposte che prevedono una carriera dei docenti tutta interna all'istituto. Chiunque capisce che un istituto gestito seriamente potrà anche conseguire livelli di eccellenza, mentre un istituto gestito con criteri poco trasparenti potrà diventare luogo di assunzioni clientelari o famigliari. E non si venga a dire che la concorrenza renderà giustizia ai migliori, perché l'istituto peggiore sarà anche quello che regala voti e promozioni e, offrendo il massimo di soddisfazione all'utente, vedrà le folle assiepate alle sue porte.
Né basta dire che a ciò si porrà rimedio con un processo di valutazione. La valutazione ci vuole, a condizione che sia seria e condotta con criteri qualitativi, ovvero di sostanza. Se invece si tratta dei processi di valutazione proposti dai "docimologi", allora è da attendersi il disastro finale: ci si prospettano baracconi di centinaia di specialisti che valutano lo stato dell'istruzione dai loro terminali sulla base della "somministrazione" di test improbabili, dalle risposte improbabili e stimati in base a teorie improbabili (se non talora francamente improponibili), le quali sono al disopra di ogni valutazione.
Queste tendenze hanno al centro lo svilimento del ruolo del docente e il disinteresse totale per i contenuti dell'insegnamento a favore dell'ossessione per le procedure. Esse emergono anche nelle proposte di sostituire i consigli d'istituto con consigli di amministrazione composti da docenti, amministrativi, ausiliari, famiglie e, al solito, "esperti" esterni. Insomma, una maggioranza di incompetenti con l'aggiunta dei soliti "esperti scolastici", ovvero di quei personaggi che non sanno cosa sia il teorema di Pitagora ma hanno la pretesa di dettar legge su come si deve insegnare. È il momento di lasciar da parte gli interventi di ingegneria istituzionale su una struttura esausta, e di parlare seriamente di contenuti. E occorre che lo faccia chi ha i titoli per farlo, in primo luogo gli insegnanti, che dovrebbero riassumere fino in fondo con gli onori ed oneri relativi - il ruolo di maestri e di educatori, piuttosto che quello di pedine del gioco del piccolo manager.

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